L’Aria di Napoli non è un souvenir, e nemmeno una trovata divertente. E’ un’opera d’arte. Di questa singolare aria, a intervalli, si è molto parlato. E si parla tuttora. Pochi però ne conoscono la vera storia.
LA PREISTORIA DELL'ARIA DI NAPOLI: l'aria e' napule A inventare l’Aria di Napoli fu un napoletano. Gennaro Ciaravolo. Un uomo benestante, simpatico, sempre pronto alla battuta, conosciutissimo in città per i suoi scherzi. Gennaro Ciaravolo non fece quest’invenzione per guadagnarci sopra: lui viveva di rendita, non di vendita. L’”Aria ‘e Napule” (la chiamò così) la inventò per divertimento, nel secondo dopoguerra. Raccontando di aver ideato e venduto l’aria della sua città, Gennario Ciaravolo voleva mettere alla berlina una “napoletanità” retriva che cominciava proprio allora ad affermarsi, e che metteva al posto della capacità di risolvere i problemi (questa sì, tipicamente napoletana) una sorta di corsa all’imbroglio e al raggiro: la parola “furbo”, che in napoletano era sempre stata “alta”: cioè nobile, e pulita, era diventata, in quegli anni difficili, sinonimo di “imbroglione”. Secondo quest’impostazione, i napoletani, con la loro “furbizia”, e la proverbiale capacità di arrangiarsi, avevano trovato il modo di far soldi anche con la guerra. Come tutti i luoghi comuni, era più che altro un’idiozia: era chiaro a tutti che la guerra aveva mandato in miseria centinaia di migliaia di persone. Lo stesso Gennario Ciaravolo aveva perso non poco, pur essendo rimasto in buone condizioni economiche. Che l’ ’”aria ‘e Napule” esistesse, e si vendesse, era falso: ma venne ritenuto vero. Perché era ben trovato: l’immagine stereotipata del napoletano rappresentato come una sorta di Re Mida, capace di trasformare qualunque danno in risorsa (“se chiure ‘na porta, s’arape nu portone”) ne usciva infatti confermata alla grande. Con in più il sapore della rivincita: gli americani, che avevano regalato (con degnazione) a dei morti di fame come noi tutte quelle lattine piene di ogni ben di Dio, adesso se le ricompravano, vuote per giunta, (in quanto “piene” solamente di aria), pagandole a peso d’oro. Una storia troppo bella per essere falsa; quindi nessuno si azzardò a metterla in dubbio. Nessuno si domandò come, dove, e con quali materiali, Gennaro Ciaravolo avesse chiuso nuovamente le lattine di alimentari vuote per riutilizzarle, in un momento in cui non era rimasta in piedi alcuna attività produttiva: e come mai non si fosse visto neppure un banchetto di vendita, o quantomeno un esemplare di questa famosa “Aria ‘e Napule”. Gli amici di C (e gli amici degli amici) erano fieri della sua genialità, che riscattava i napoletani tutti. Gennaro Ciaravolo se la rideva. Nessuno, tra l’altro, aveva colto (con la o larga) la citazione che lui, uomo colto (con la o stretta) e collezionista d'arte moderna, aveva fatto: la lattina di Aria di Napoli rimandava infatti all’ampolla di “Air de Paris” creata da Marcel Duchamp in un altro dopoguerra: quello precedente. La notizia che a Napoli si vendevano delle lattine vuote, per prendere in giro (e lucrare su)gli americani a caccia di qualcosa da riportare in patria come ricordo, circolava insomma alla grande. “Seminata” da Gennaro Ciaravolo, questa (falsa) notizia avrebbe germogliato nei racconti di tutti quelli che l’avevano trovata troppo bella per essere falsa. E perciò, per avvalorarla, dicevano di aver visto coi propri occhi, in città, i banchetti con l’aria di Napoli in vendita. Questo tipo di diffusione “orizzontale”, fondata sul tamtam interpersonale, sarebbe stato riconosciuto, anni dopo, come il tipico meccanismo di propagazione delle “leggende metropolitane”; storie false che vengono ritenute vere, e perciò avallate da (false) testimonianze oculari. A svelarne i meccanismi con una serie di innovativi interventi “sul campo” sarà, quarant’anni dopo, suo nipote, noto psichiatra e artista. Qualcuno però conosceva la verità sull’Aria di Napoli. La conosceva, fin dal 1947, un giovane cineasta, che sarebbe diventato uno dei più grandi registi italiani: Dino Risi. A lui l'aveva svelata il noto giornalista e sceneggiatore Roberto Minervini.
Nel 1947 Dino Risi (curiosamente, laureato in medicina, e avviato alla carriera di psichiatra, poi abbandonata per la regia) era venuto a Napoli per girare un documentario sulla città in quel primissimo dopoguerra. Della raccolta del materiale si era occupato un noto giornalista e scrittore, Roberto Minervini, che del documentario sarebbe stato anche soggettista e sceneggiatore.
Tra le mille storie di (stra)ordinaria sopravvivenza della Napoli in guerra, Minervini si era imbattuto nel racconto dell’”Aria ‘e Napule”, che in tanti sostenevano essere stata venduta ai soldati americani che lasciavano la città, come “souvenir d’Italie”. Con la sua proverbiale puntigliosità, Minervini, seguendo alcune piste, riuscì a risalire alla fonte di questa storia: Gennaro Ciaravolo. E tanto fece, che riuscì a intervistarlo. Inserendo l’intervista nel documentario che Risi stava girando. Nel suo colloquio con Minervini, Gennario Ciaravolo fu molto chiaro: svelò la sua citazione di Duchamp, e disse che lui l’ ”aria ‘e Napule” non l’aveva mai realmente venduta: aveva solo raccontato in giro di averlo fatto. Né (ispirati da questo racconto) l’avevano venduta altri: non c’era infatti alcuna traccia di una qualsivoglia vendita di lattine di “aria ‘e Napule”. Minervini, prima ancora che l’intervista comparisse nel documentario di Risi, ne diffuse i contenuti sui giornali sui quali scriveva. Ci si sarebbe aspettati che la diceria (la leggenda, diremmo oggi) della vendita dell’aria di Napoli perdesse forza, o scomparisse addirittura: e invece no. La pur documentata, e ampiamente diffusa smentita, della reale esistenza dell’Aria ‘e Napule, non attecchì. In qualche caso la smentita venne considerata fasulla, e quindi negata. In altri casi, le obiezioni che tendevano a dimostrarne l’impraticabilità, e quindi la falsità, vennero disinnescate da nuove versioni dell’evento: chi aveva giurato di averla vista in vendita, non poteva fare marcia indietro…è vero, dicevano questi (falsi) testimoni dell’evento, non c’era la possibilità di richiudere le lattine: ma quelle che si vendevano non erano mica delle lattine! Secondo questa nuova versione, che bypassava l’obiezione, l’aria di Napoli veniva inserita all’interno di flaconi di medicinali riciclati (e quelli c’erano, in giro). C’era chi sosteneva che dentro questi flaconi fosse stata inserita anche una “scorzetta” di limone: l’Aria ‘e Napule avrebbe assunto così un profumo d’agrumi tipico di queste zone… La tendenza dei ripetitori di una leggenda a “bypassare” ingegnosamente le obiezioni che tendono a metterla in dubbio si sarebbe rivelato in seguito una delle tipiche modalità attraverso le quali le leggende metropolitane si assicurano la sopravvivenza. Dino Risi inserì dunque l’intervista di Minervini a Gennaro Ciaravolo sulla sua “Aria ‘e Napule” nel documentario girato a Napoli nel 1947. Di questa fantomatica Aria il regista si ricorderà quasi vent’anni dopo, nel 1966, e la inserirà, in maniera quasi subliminale, nel suo fortunatissimo “Operazione S. Gennaro”. Nel 2006, tornato a Napoli per la presentazione della copia restaurata del film, Risi, ricordando la sua prima esperienza napoletana, afferma di essersi molto divertito a girare “Strade di Napoli” per le medesime: per le vie della Napoli stracciona e vitalissima del dopoguerra. Al suo racconto Risi aggiunge un particolare fino ad allora mai rivelato, che diede una mano di giallo al color seppia dei ricordi: buona parte delle pizze del documentario – raccontò il regista – vennero misteriosamente rubate, non si sa perché, né da chi. Forse – è una sua ipotesi – aveva pestato i piedi a qualcuno; o forse qualcuno degli intervistati, preoccupato di ciò che aveva incautamente detto, era corso ai ripari trafugando i materiali registrati. Le pizze scampate al furto divennero comunque il documentario “Strade di Napoli”, e si rivelarono di tale qualità (a Napoli la pizza è sempre buona…) da vincere un premio a Cannes. Quasi vent’anni dopo aver girato questo straordinario documentario,nel 1966, Risi torna a Napoli per girarvi il suo leggendario “Operazione S. Gennaro”. Il cast è di grande livello: Nino Manfredi, Totò, Senta Berger, Mario Adorf. La sceneggiatura è di Ennio De Concini, Nino Manfredi e Dino Risi. Il film riscuote uno straordinario successo: è apprezzato dalla critica (vince il premio per la regia al Festival di Mosca del 1967) e adorato dal pubblico, tanto da diventare un cult. L’Aria ‘e Napule il suo inventore, Gennaro Ciaravolo, non l’aveva mai messa in vendita. Né l’avevano fatto altri. Risi, come s’è detto, lo sapeva benissimo. Ma questa geniale invenzione rappresentava splendidamente l’aria (a minuscola) che si respirava nella Napoli dell’immediato dopoguerra, in cui mancava tutto, meno che la creatività. Questa creatività, però - secondo uno stereotipo che cominciava ad affermarsi proprio in quegli anni convulsi - invece che al servizio della soluzione dei problemi, come era sempre stato, veniva messa al servizio di un’ “arte di arrangiarsi” avente come fine la sopravvivenza pura e semplice: la propria, a discapito di tutto, e di tutti. E’ proprio in questo secondo dopoguerra (che quanto a drammaticità, non è stato secondo a nessuno) che il termine “furbo” comincia a diventare sinonimo di “imbroglione”. Simpatico e geniale, sì: ma sostanzialmente imbroglione. Una persona delle cui imprese si può ridere, quando la vittima è qualcun altro; ma che va preso con le molle. Per sottolineare tutto questo, Risi decise di infilare l’Aria e Napule in Operazione S. Gennaro. Con discrezione: “en passant”, per così dire. In due diversi momenti del film si può vedere un ragazzino che cerca di vendere prima a Senta Berger, e poi a un suo amico malavitoso (un americano!) una lattina di “Aria di Napoli” (traduzione letterale di “aria e napule”), per 500 lire. La lattina si vede perfettamente, l’etichetta no: è il ragazzino a dire cosa c’è dentro. La storia raccontata nel film (il furto del tesoro di San Gennaro da parte di una gang di americani e di napoletani) è inventata, ma la cornice è la vera Napoli di quegli anni: a cominciare dal Festival di Napoli citato ad un certo punto. E’ per questo che il ragazzino che corre per le strade con la lattina di Aria di Napoli in mano, e che da quel momento non ha mai smesso di correre, è entrato nell’immaginario dello spettatore come qualcosa di realmente presente in città, in quel momento. La “citazione” di Risi è quasi subliminale: l’attenzione dello spettatore è tutta sulla trama, per cui quasi nessuno fa caso al bambinetto che, nella confusione di una strada napoletana, fa la sua comparsa. “Operazione San Gennaro” è campione di incassi al cinema, alla fine degli anni sessanta. E l’aria di Napoli, anche se così fuggevolmente mostrata (anzi, con tutta probabilità, proprio per questo) entra nell’immaginario del pubblico. Grazie al film di Risi (che, lo ricordiamo, è del 1966), verso la fine degli anni sessanta racconti sull’Aria di Napoli, che si erano andati affievolendo dopo la partenza degli americani, e che si erano riattivati qualche anno dopo con gli articoli di Roberto Minervini, e con "Le strade di Napoli", ripresero a circolare. Col film, l’Aria di Napoli rientra nell’immaginario dei napoletani (dal quale non era mai andata veramente via), ed entra ancor più in quello degli italiani. E non solo, visto che la pellicola ebbe un certo successo anche all’estero. Di qui a poco, nel 1970, un giovane studente avrebbe avuto l’idea di fabbricare davvero, per la prima volta, queste lattine di cui tanto s’era parlato, e di cui si parlava ancora. Il giovane si chiamava Claudio Ciaravolo. Lo stesso cognome dell’inventore, Gennaro. Un caso di omonimia (anzi, di cognonimia?) No. Claudio Ciaravolo era il nipote di Gennaro Ciaravolo.
Per Claudio Ciaravolo, l’Aria di Napoli aveva ovviamente un’aria familiare: sapeva meglio di chiunque altro che il nonno aveva messo in circuito il racconto della vendita della lattine d’aria, ma non le aveva mai realizzate, né tantomeno commercializzate.
Lui invece le realizza concretamente: commissionando a una fabbrica che inscatola pomodori (in questo momento ce ne sono tante!) 100 lattine vuote, perfettamente chiuse: dunque leggerissime, dal momento che dentro non c’è niente (pardon: c’è dell’aria). Poi tira al ciclostile 100 etichette con su scritto: “Aria di Napoli”. Su 50 esemplari aggiunge “Con smog”, sugli altri 50 “Senza smog”.
L’aria ‘e Napule raccontata dal nonno era stata una divertente e divertita provocazione: lo sarebbe stata anche quella del nipote. Le provocazioni di Claudio Ciaravolo sarebbero state addirittura due: a ben vedere, tre. La prima è esemplificata dalle lattine con lo smog. Nel 1970 siamo ancora lontani dall’attuale spasmodica attenzione all’inquinamento: in quei giorni, le polveri sottili le conoscono solo i polmoni della gente. E’ comunque già epoca, a Napoli, di traffico convulso: non a caso, le prime targhe pari e dispari d’Italia nasceranno proprio qui (ma più tardi: nell’81). Gli stereotipi sono riposanti, perché non obbligano a pensare: è più facile affidarsi a loro, che interrogarsi sui problemi urbanistici di una città fatta di strade strette e popolatissime, inadeguate a sopportare un volume di traffico veicolare sempre in aumento. O riflettere sul fatto che il problema del traffico è comune a tutte le grandi città. Insomma, è più comodo pensare che i responsabili di tutto questo siano sempre loro: i napoletani, che per non voler rispettare alcuna regola, per voler sostare dappertutto, e ignorare i semafori, provocano il caos. Ma qualcosa di positivo c’è: lo dicono, provocatoriamente (e ironicamente!) le lattine d’aria di Napoli con lo smog. Lo smog (smoke+fog: fumo+nebbia) è un segno di industrializzazione, oltre che di industriosità: è a Milano che esiste, classicamente, lo smog. A Napoli non dovrebbe esserci, perché mancano sia la nebbia, che il fumo delle fabbriche (che non ci sono). E invece a Napoli lo smog esiste: nelle lattine di CC. Grazie all’”Aria di Napoli” nella variante con lo smog, ecco dunque il meridione – finalmente! – all’altezza dell’Italia che produce. L’aria con la scritta “senza smog” allude ad una paradossale azione di sottrazione di questo fantomatico smog (che solo più tardi diventerà indicatore di un eccessivo traffico automobilistico, e non di inquinamento industriale). Ma come potevano esserci a Napoli, paese del sole, i fumi delle industrie, quando di fabbriche non ce n’era nemmeno una? La seconda provocazione di cui si rende protagonista l’Aria di Napoli è una provocazione artistica. Il momento è perfetto per l’operazione che stiamo per descrivere: gli anni settanta sono, in Italia e nel mondo, anni di grande fermento. C’è aria nuova, in giro: il 68 è appena passato, e gli anni successivi saranno ancora più innovativi e rivoluzionari di lui. CC respira intensamente quest’aria frizzante, e le dà il suo contributo, specialmente sul piano dell’impegno politico e sociale. In questi anni tutto viene messo sotto processo: dal potere, alla famiglia, alla scuola. Ovviamente, nemmeno l’arte può sfuggire a questo bisogno di riscrittura (e rilettura) della realtà.
Già negli anni sessanta Piero Manzoni aveva criticato il modo tradizionale di intendere l’arte, affermando che arte è tutto ciò che proviene da un’artista: dunque anche le sue deiezioni. Fatto, e inscatolato: nel 61 Manzoni “produce” i suoi celebri contenitori – non numerosi, ma numerati - e li chiama “Merda d’artista”.
Sulle sue 90 celebri scatolette Manzoni scrive: "contenuto netto gr.30, conservata al naturale, prodotta ed inscatolata nel maggio 1961". Con questa provocazione (il conferimento di dignità artistica alle feci), Piero Manzoni (discendente del mitico Alessandro) intendeva demistificare il concetto di arte, irridendo nel contempo al delirio “superuomistico” dell’artista: e dunque, anche al proprio. Tutti ricordano queste famose scatolette. Meno nota, ma non meno significativa, è una sua opera precedente (maggio 1960), dello stesso segno: i “corpi d’aria”, 45 palloncini gonfiati dall’autore con il suo “fiato vitale”, cioè con l’aria proveniente dai propri polmoni. L’opera viene battezzata da Manzoni “Fiato d’artista”. La citazione di Duchamp ( con la sua “Air de Paris”) qui è evidente, e intenzionale.
In quegli anni scatole e lattine erano considerate un materiale e d’elezione per gli artisti “d’avanguardia”: Andy Warhol, rappresentando le famose lattine di Zuppa Campbell, le fa passare direttamente dalla cucina alle gallerie d’arte, facendo nello stesso tempo effettuare all’arte il percorso inverso: dai soggetti classici alla cucina, dunque alla vita. Un processo, questo, che parte da lontano: già molto tempo prima, negli anni venti, Marcel Duchamp, coi suoi “ready made”, aveva trasformato gli oggetti della vita quotidiana in oggetti d’arte (il celebre “orinatoio” è del 1917). Piero Manzoni aveva criticato l’arte, rivoluzionandone il concetto; ma era restato all’interno delle gallerie d’arte. Claudio Ciaravolo intende andare oltre: uscire all’esterno. L’arte dev’essere libera. Libera come l’aria. Deve uscire dal chiuso delle mostre e dei palazzi della cultura, e andarsene all’aperto. C decide allora di portare le sue 100 lattine di “Aria di Napoli” a Venezia: le venderà per strada. Facendo diventare la lattina altro da sé: rendendola un “prodotto”, un “quid” in bilico tra oggetto quotidiano e arte. Questa provocazione artistica piace immensamente al mercante d’arte e gallerista napoletano Lucio Amelio, al quale C mostra le lattine di “Aria di Napoli " appena realizzate. Qualche anno prima Amelio avuto conosciuto e apprezzato l'ironia del giovanissimo Claudio Ciaravolo, quando questi gli aveva mostrato la sua prima opera d’arte: con una mirabile sintesi fra le due ricordate opere di Manzoni “merda d’artista” e “Fiato d’artista”, Ciaravolo aveva realizzato artigianalmente 10 lattine di “aria d’artista”. Lo scherzoso riferimento era sia alla vanagloria dell’artista, che vende le arie che si dà, ma anche alla visceralità delle sue opere con un riferimento linguisticamente più nascosto nel significato di flatulenza. Negli anni 80 Amelio porterà a Napoli Andy Warhol, coinvolgendolo, insieme ad artisti del calibro di Beuys, nel progetto Terrae Motus, la mostra sul terremoto dell’80: ma già dagli anni 60 e 70 segue attentamente le avanguardie artistiche mondiali. Quando C gli comunica l’intenzione di andare a vendere la sua lattina di Aria di Napoli a Venezia come opera d’arte e non come oggetto reale, e per giunta non all’interno degli spazi della Biennale, ma fuori di essa, Amelio se ne dichiara entusiasta. Sono tempi esaltanti, per l’arte. Nel 1964 la pop art è sbarcata in Europa: Rauschenberg, ma anche (in Italia), Cascella, Casorati, Manzù, Pomodoro, Rotella. Tutto è movimento, in questo periodo. Un Movimento soprattutto Studentesco. E’ il Movimento a bloccare la Biennale del 68, e la tradizionale assegnazione dei premi. L’edizione del 70 sarà diversa da tutte le altre. Claudio Ciaravolo decide di andarci (anzi di tornarci: era stato tra i contestatori di quella del 68), ma restandone fuori. Sistema infatti il suo banchetto all’esterno della Biennale, e propone la sua spiazzante provocazione: l’“Aria di Napoli” a Venezia. La performance artistica di Claudio Ciaravolo riscuote grande successo di pubblico, e di critica (d’arte). Allertati da Lucio Amelio, sulle lattine sistemate sul banchetto stradale convergono intellettuali, appassionati d’arte, collezionisti, galleristi, artisti e curiosi. In brevissimo tempo vengono smaltite sia le lattine con lo smog, che quelle senza. Qualche ora dopo C torna nello stesso posto con altre lattine uguali alle precedenti, con la dicitura: “Ri/fatte a Napoli”. Dunque false: ma la certificazione di falsità che le accompagna le rende “autenticamente false”. Quindi, in qualche modo, vere.
E ancora: le precedenti, contenenti aria di Napoli, si presume siano state confezionate là. Ri/fatte a Napoli non significa allora che è semplicemente una nuova partita della stessa autentica aria? Anche queste lattine “false” sono 100 (50 con smog, 50 con la scritta senza smog), tutte autenticate e firmate dall’autore.
Claudio Ciaravolo innesca insomma un gioco vero/falso particolarmente intrigante per chi si occupa d’arte, o anche più semplicemente di realtà. Due concetti dai contorni indefiniti, e forse indefinibili. Resi ancor piu' emblematici dall'arte concettuale, che non richiede l' intervento diretto (manuale) dell'artista sull'opera. Non s’era detto che l’Aria di Napoli, nella sua immaterialità, conteneva ben tre provocazioni? Certo: la terza è sul versante della comunicazione. L’Aria di Napoli in vendita sul banchetto veneziano di C è la reificazione di un “oggetto” fino ad ora inesistente: che prima non c’era, ma (nei racconti della gente) si vendeva dappertutto. Adesso l’Aria di Napoli finalmente c’è, ma in sostanza continua a non esserci, e a non vendersi, come souvenir: si è venduta soltanto – per un sol giorno, e per poche ore!- come opera d’arte. La complessità comunicazionale (l’intrigo comunicazionale) dell’operazione-Aria di Napoli, presentata sul banchetto fuori della Biennale di Venezia, nel 1970, è stata rapidamente semplificata, e fagocitata, dall’elaborazione che se ne fece gia' pochi mesi dopo: confermò infatti la vecchia e pervicace idea che l’Aria di Napoli si fosse sempre venduta, e si continuasse a vendere come oggetto, come ricordo. La valenza artistica, il riferimento ironico alla Napoli non industrializzata, il nome dell’inventore: tutti elementi che saranno in parte nel tempo cancellati. L’invenzione (e la vendita) dell’Aria di Napoli non vengono attribuite da tutti al napoletano Claudio Ciaravolo, ma “al napoletano”, inteso come popolo. Anzi, al suo stereotipo, che lo inchioda al ruolo di furbo e simpatico imbroglione. Esattamente quello che si pensava prima di Venezia. Negli anni successivi, Claudio Ciaravolo prosegue nelle sue “provocazioni mediatiche”, inventandosi numerosi oggetti d’arte, divertenti e paradossali: il ghiagettone, l’antifurbo, il discorario, le targhe false, e tanti altri. Queste operazioni comunicazionali gli valgono, presso gli studiosi d’arte, e di comunicazione, i titoli di “situazionista” e di “neo-post-dadaista”. Ma il top delle gamma: il più straordinario degli “oggettoidi” di Ciaravolo, a metà strada tra opere d’arte e induttori di comunicazione paradossale, è certamente, nel 1989, la maglietta di sicurezza. La m. di s. è sì un oggetto d’arte (oggi la si può trovare in molti musei di arte moderna), ma è anche un esperimento di comunicazione: è la prima leggenda metropolitana creata “in laboratorio”, e messa in giro perché possa diffondersi in tutto il mondo. L’esperimento riesce, e le cose vanno esattamente come erano andate per l’aria di Napoli. A suo tempo, la stampa (allora come media c’erano solo lei e la radio…) aveva smentito recisamente che l’Aria di Napoli si vendesse in giro: e aveva detto chiaramente che l’aveva inventata, per divertimento, tal Gennaro Ciaravolo, napoletano. Ma nonostante ciò, la gente aveva creduto, e continuato a credere, che l’Aria di Napoli fosse una reale, e geniale trovata dei napoletani, che la vendevano davvero per lucrare sugli ingenui americani. Stessa storia per la maglietta di sicurezza: nonostante tutti i media (e nell’89, oltre ai giornali e la radio, c’è anche la televisione), svelino, a più riprese, e a chiare (e cubitali) lettere, che si è trattato di un esperimento di comunicazione ideato da Claudio Ciaravolo (un personaggio già noto, e quindi riconoscibile e ricordabile, in quanto non nuovo a esperienze del genere), moltissima gente, in tutto il mondo, ha continuato (e continua!) a credere che la maglietta di sicurezza è stata inventata dai Napoletani, popolo furbo e truffaldino, per fregare i vigili urbani, suoi mortali nemici. Insomma, nonostante i media riportino, con grande risalto (e con molte interviste, sui giornali, alla radio e in Tv) il nome, la faccia, e la testimonianza diretta del napoletano (con la enne minuscola) che ha inventato e diffuso la maglietta di sicurezza, la gente tenderà a cancellare il nome, il volto e soprattutto il significato comunicazionale ed artistico dell'evento: per molti, la maglietta l’ha inventata il Popolo Napoletano (P ed N maiuscole!),e, invece per quasi tutti,la maglietta è stata inventata per fregare l’autorità costituita nel suo solito modo geniale e scanzonato. Anche per gran parte di coloro che “registrano” (per esservi stati esposti molte volte) il dato che la maglietta di sicurezza è opera di un singolo napoletano, che si chiama Claudio Ciaravolo, la potenza dello stereotipo è così forte, da spingerli a falsificare la realtà: OK, Claudio Ciaravolo ha inventato la maglietta; come opera d’arte, va bene: questo però non gli ha impedito, da buon napoletano, di promuoverne la vendita sulle bancarelle in giro per la città… L'idea che si sia trattato della diffusione di una leggenda metropolitana, a tutt’oggi, risulta sconosciuta ai più. E anche ai meno. L'ARIA DI NAPOLI E LA MAGLIETTA DI SICUREZZA In quell’89, e nei mesi (ed anni) che seguirono, l’enorme risonanza mediatica della maglietta di sicurezza inventata da Claudio Ciaravolo, con la sua doppia valenza di esperimento di comunicazione e di opera d’arte, ha regalato agli strani “oggettoidi-gadget-opered'arte” ciaravoleschi – o ciarabolici, secondo un’altra dicitura - una seconda giovinezza. L’Aria di Napoli ha registrato comunque una “riattivazione” maggiore rispetto alle altre opere. In effetti, l’AdN è quella che, con la maglietta, meglio rappresenta lo stereotipo del napoletano nel mondo: la maglietta di sicurezza simboleggia – per chi crede a questo stereotipo - il trionfo della creatività e della genialità dei napoletani. Come l'aria di napoli. Un altro elemento decisivo nella riattualizzazione dell’Aria di Napoli, oltre la maglietta, è il successo di Operazione S.Gennaro, dovuto anche alla presenza nel cast di Totò, attore amatissimo a Napoli. Il film, dopo il successo ottenuto nelle sale, è diventato un punto fermo nella programmazione delle televisioni private, che dalla metà degli anni 70 sono spuntate come funghi. Così, a partire dagli anni 80, quasi non passa settimana senza che lo si veda da qualche parte. Il fenomeno, appena attenuato, prosegue ancor oggi. Sull’onda della popolarità mondiale della maglietta di sicurezza, l’Aria di Napoli riprende vigore, e non solo in Italia: anche all’estero, dove già era arrivata a suo tempo: per alcuni, come opera d’arte firmata da Claudio Ciaravolo, e per molti altri, come ennesima prova della furbizia dei napoletani. A cominciare dai critici d’arte, per continuare con i comunicatori, fino alla gente comune, tutti dunque ricominciano a parlare dell’Aria di Napoli. Questo interesse diffuso un po’ ovunque nel mondo, fa venire in mente ai commercianti di souvenir di molti Paesi che il momento è propizio per cominciare a produrre le Arie in serie: nascono così, a partire dal 1990, nelle città più turistiche del mondo, le Arie locali: l’Air of New York, l’Air of London, L'Air de Paris... L’Air de Paris in vendita a Parigi sul lungo Senna, davanti al Louvre, e dappertutto, dà vita a un intreccio decisamente godibile: chi ha dato al contenitore dell’Air de Paris la prosaica forma di una scatola di sardine non ha probabilmente alcuna notizia del fatto che le Arie di tutto il mondo hanno un capostipite francese: quel Marcel Duchamp che per primo la realizzò nel 1919. La cosa più divertente (per Claudio Ciaravolo) è che però, per arrivare sulle bancarelle di Parigi, l’Air de Paris è stata costretta a fare il giro lungo: è dovuta passare per Napoli. E’ stata infatti, come s’è accennato, la riattivazione dell’Aria di Napoli a risvegliare, e in molti casi a creare, il mercato internazionale delle Arie. Siamo nel 1990. Mentre la diffusione dei souvenir di arie è fortissima in tutto il mondo, Claudio Ciaravolo ritiene arrivato il momento di irreggimentare anche le acque; crea così l’Acqua di Napoli, l’Acqua di Capri e, in omaggio a Venezia, da cui l’Aria di Napoli aveva spiccato il volo – l’Acqua di Venezia. Per ciascuna di queste tre acque Claudio Ciaravolo studia una prestigiosa confezione, proponendole –come sempre, come opere d’arte – nei classici 100 esemplari, cui se se ne aggiungono altri 100, “autenticamente falsi”. Dando loro il nome (poi diventato marchio registrato) di “Souveneau”. A queste eleganti confezioni si affianca, nella primavera del 1990, quando il Napoli soffia lo scudetto al Milan, il flaconcino contenente le “Lacrime di Berlusconi”. Ma questa è un'altra storia. Le arie delle varie città si vendono ormai in tutti i luoghi in cui ci sia un buon movimento turistico, e quindi un consolidato mercato del souvenir. l’Aria del Luogo riscuote dovunque grande successo, perché è innovativa, e vince la concorrenza coi soliti polverosi oggetti ricordo, tutti uguali, che si vendono da sempre sulle bancarelle. A Napoli, l’Aria di Napoli si troverà in vendita alcuni anni più tardi rispetto alle altre grandi città, comparendo solo alla fine del 1994. Qualcuno, a Napoli, registra addirittura il marchio “Aria di Napoli”, trovandolo libero (Claudio Ciaravolo non aveva avuto alcun interesse a registrarlo, in quanto titolo di una (sua) opera d'arte ormai molto famosa, presente nelle più importanti collezioni d'arte). La registrazione del marchio dovrebbe avere la funzione di impedire la vendita da parte di altri soggetti: ma com’è ovvio, non vi riesce. In città compaiono contenitori d’aria di Napoli d’ogni tipo e forma. Lungi dall’essere infastidito da tutte queste correnti d’Aria, di cui è stato ispiratore, Claudio Ciaravolo ne è lusingato, e soddisfatto: ne ricava infatti un grande ritorno di immagine. Che si traduce anche in un vantaggio economico, pur non avendo egli niente a che fare con la commercializzazione dell’Aria di Napoli come souvenir: la sua notorietà aumenta, e con essa aumenta il valore dell’ opera d’arte “Aria di Napoli”, firmata da lui. Una curiosità: tutte le Arie di Napoli a vario titolo prodotte e messe sul mercato in questi anni sono state “ripulite”: la dicitura “con lo smog”, e “senza smog” sparisce dall’etichetta. C è molto soddisfatto della “souvenirizzazione” della sua opera, e di queste repliche che fioriscono dappertutto, in una diffusione senza precedenti. E’ avvenuto molto più di quello che si augurava: la contaminazione tra arte e quotidianità, tra mercato dell’arte e mercato tout court, tra vero e falso, in un intrigo straordinario. E questo non può che rendere felice un postneodadaista come lui. Una curiosità: nelle varie versioni commerciali delle Arie è curioso che non venga mai impiegata la lattina: spesso si tratta di scatole di metallo, più larghe e basse. Quelle in vendita sulle bancarelle a Milano, per esempio, sono di cartone rigido. Almeno finora. Altrettanto si può dire riguardo alla commercializzazione (“spicciola”, verrebbe da dire: ma tra negozi e negozietti, il mercato mondiale delle arie è tutt’altro che modesto…) delle arie di altre città italiane: solo all'estero si sono trovate, nei negozi di souvenir di tutto il mondo, delle arie confezionate in lattina. La lattina era invece il contenitore d’aria delle origini: nel suo film Risi mostra infatti una “buatta” (così a Napoli si chiama tuttora lo scatolame), di quelle con cui gli americani avevano invaso Napoli; non a caso, Gennaro Ciaravolo racconta di aver venduto proprio delle lattine piene d’Aria. Quando rende le sue lattine delle opere d’arte, Claudio Ciaravolo, oltre a citare suo nonno Gennaro, cita i quadri delle lattine di zuppa Campbell’s di Warhol (del 1961), e il già ricordato Piero Manzoni.
Più o meno nello stesso periodo in cui l’Aria di Napoli comincia a vendersi a Napoli come souvenir: verso la metà degli anni 90, nasce il web. E la possibilità di registrare dei siti. Claudio Ciaravolo registra rapidamente www.ariadinapoli.it, su cui racconta quello che state leggendo in questo momento: la vera storia dell’aria di Napoli. Allo stesso tempo allestisce un altro sito: www.souvenair.it. Sul quale propone un’operazione innovativa: seguendo le istruzioni che vi sono contenute (dove e come trovare delle lattine, come ideare un’etichetta, ecc.), ciascuno si potrà “costruire” l’aria che vuole. Da quella del proprio paese, per quanto piccolo e sconosciuto sia, fino ad arrivare, in una percorso sempre più minimalista, a farsi l’Aria del proprio condominio (quasi sempre malsana); o, volendo, l’Aria di camera sua. Per lanciare il suo souvenair.it, Claudio Ciaravolo vi inserisce un’aria particolare: la Nebbia Padana(a cui dedicherà un sito a parte). Di essa, fuori dal web, mette in vendita le classiche 100+100 lattine (100 vere, e 100 “false”), come opera d’arte. Sul sito, spiega comunque come farsela da sé. Claudio Ciaravolo la nebbia l’aveva già inscatolata molti anni prima: nel 1972, due anni dopo la performance veneziana dell’Aria di Napoli. Già allora la nebbia a Milano cominciava a diminuire; e i milanesi doc dicevano di sentirne la mancanza. Davanti al Duomo compare così un banchetto, con sopra una serie di lattine con la dicitura: NEBBIA.Le 100 lattine numerate e firmate e successivamente le altre 100 "autenticamente false" andranno a ruba.E l'evento fotografato e pubblicato nella cronaca da tutti i giornali,sarà ricordato a lungo e vanterà numerosi tentativi di imitazione negli anni a seguire.Non solo da parte di venditori di souvenir ma anche di sedicenti artisti che provano afarla passare come una propria idea... Nel 2000, in occasione del Giubileo, sempre su souvenair.it Claudio Ciaravolo presenta l’Aria Santa, e le istruzioni per la produzione personale.Più in là, allo scoppiare della guerra in Iraq, è la volta dell’”Aria Pacis”: l’aria di pace, di cui tanto si sentiva (e si sente…) il bisogno. (Fuori del web, dell’Aria Santa venderà ai collezionisti d’arte i classici 100+100 pezzi; l’’Aria Pacis” verrà invece “tirata” in solo 10 esemplari, venduti nel corso di un happening sotto l’Ara Pacis, riaperta a Roma proprio in quei giorni dopo un “restyling” che aveva scatenato una vera e propria guerra). Ciaravolo dedica sia all'aria santa che all'aria pacis un sito internet a parte. Su www.souvenair.com invece ci sono le arie delle città non italiane (come air of london ,ecc). Claudio Ciaravolo non ha mai smesso di darsi delle arie, e di darle a tutti quelli che gliene chiedono. Nel corso degli anni, ha messo in cantiere, un po’ alla volta, delle altre arie: l’aria fritta, l’aria da fesso, l’aria indaffarata, l’aria di vacanza…L’elenco è lungo, e lo si può trovare (insieme alla descrizione di ciascuna di queste nuove arie) su un sito appositamente predisposto: "http://www.arie.it" www.arie.it. Questo sito non funge solo da espositore permanente delle arie ciaravolesche: chi dovesse aver acquistato o sta per farlo (ognuna di esse è stata “tirata” nei 100+100 esemplari canonici autenticata e numerata e classificata) può richiedere informazioni sull'autenticità direttamente all’autore. L’alto numero di visitatori ha attirato su arie.it e su souvenair.it numerosi inserzionisti pubblicitari: attualmente peraltro Claudio Ciaravolo vi ospita soltanto la pubblicità di un sito che racconta le partite del Napoli in versi. .